Uomo e lavoro

Uomo e lavoro

Una parte essenziale e costitutiva dell’identità maschile è sempre stata allacciata a doppio filo con la sfera del lavoro.

Se la donna è stata infatti relegata per secoli all’ambito della sfera familiare e domestica, l’uomo ha sempre fornito, tramite il suo lavoro, una fonte di sostentamento e dignità alla sua famiglia, in quanto responsabile di essa nei confronti della società.

Un uomo è spesso prima il suo lavoro e poi il suo nome, persino a livello di linguaggio. Quanto è radicata l’abitudine, anche nei contesti più informali, di chiamare l’uomo che si ha davanti in base alla professione? Avvocato, Dottore”, Ingegnere (fino a Ragioniere hi hi) e via discorrendo, seguito dal nome.

Ma cosa ci dice questa consuetudine? Oltre che un’evidente forma di rispetto per lo status sociale, questo fenomeno indica quanto nella definizione di un uomo sia cruciale l’associazione alla professione.

Per l’identità maschile riconoscersi ed essere riconosciuti come lavoratore non è un’opzione: da ciò deriva buona parte dell’autostima, della reputazione e la possibilità di vedersi assegnato un ruolo e uno status. La capacità di costruirsi una carriera è, per molti uomini, non solo occasione di benessere materiale, ma prima di tutto di benessere mentale.

La “condanna” alla sfera pubblica spinge gli uomini a trovare conferma della propria identità maschile tramite la competizione, che nella società post-industriale è incanalata nel lavoro. Che sia la ricerca di una carriera di successo o l’assunzione di responsabilità rispetto al benessere della famiglia, l’uomo si riconosce e si costruisce un’identità nella sua relazione col lavoro.

 

Il patriarcato imbriglia gli uomini nelle catene di un ruolo che li costringe sempre a dare il massimo per dimostrarsi all’altezza del loro compito. Se alle donne non è mai concesso di superare una certa soglia, agli uomini è sempre richiesto di raggiungere il massimo. Per loro non c’è una lista di “non puoi”: c’è una lista di “devi”, una tensione ideale verso la perfezione.

 

Alla luce di ciò: quanto potrebbe essere utile, in un’ottica di utilità e benessere individuale, oltre che sociale, ripensare la relazione degli uomini con il lavoro? Quanto potrebbe essere significativo dire agli uomini a livello legislativo e organizzativo che il lavoro non è tutto, che non sono il loro lavoro, che la loro dignità non si decide dalla loro capacità di mantenere una famiglia?

 

Tuttavia, in questa direzione, purtroppo le istituzioni e la politica non aiutano. Pochi mesi fa si è decisa la legge di bilancio 2022, ma ancora una volta è stata bocciata la proposta di estendere a tre mesi il congedo di paternità. Una proposta di equità che avrebbe dato una spinta a un processo di ridefinizione dei ruoli che permetterebbe a chiunque, uomo o donna, di realizzarsi nella maniera che più ritiene opportuna. Perché non consentire a un uomo di realizzarsi come padre, se più predisposto, e a una donna di realizzarsi come lavoratrice, se questi sono i loro desideri? Perché imbrigliare in ruoli cristallizzati gli individui? Questo permetterebbe di liberare energie inaspettate, facendo scoprire agli uomini dimensioni da cui sempre sono stati tenuti lontani: la sfera dell’affettività, delle emozioni, della cura dei rapporti e dei figli.

Perché continuare a crescere generazioni di padri assenti e distratti, come se non fosse affar loro “sporcarsi” le mani con le questioni familiari?

Liberare gli uomini dal carico di queste aspettative non sarebbe solo un vantaggio per loro, ma ne gioverebbe la società tutta. Un uomo da cui non ci si aspetta solo che possieda disponibilità economiche per sé e per la propria famiglia è un uomo che più facilmente collabora nei lavori di casa, che si prende qualche permesso in più, che si prenda cura dei figli non solo mantenendoli, ma contribuendo attivamente nella loro gestione e curando la sfera affettiva.

Sarebbe, in fin dei conti, una persona migliore.

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